giovedì 3 novembre 2016

Non conosco che te

Non conosco pensieri che, nati nelle stanze della mia mente,non vogliano correre per i tuoi corridoi Non conosco desideri che, partoriti tra i battiti gonfi del mio cuore, non vogliano riposare, cullati dal calore del tuo respiro.
Non conosco tempi che, elemosinati all'incedere fragoroso del giorno, non vogliano essere dilapidati con te.
Non conosco luoghi che, sottratti all'invadenza,  custoditi nell'intimità, non vogliano essere abitati da te.
Non conosco altre mani con cui le mie vogliano disegnare orizzonti.
Non conosco altri piedi di fianco ai quali i miei vogliano solcare l'oggi.
Non conosco che te: eppure non ti sapevo nè mai davvero ti saprò del tutto.

sabato 8 ottobre 2016

Ti aspetto qui,nel mio tempo di mezzo.

Carissima Elda, qui l'autunno ha iniziato a farsi strada come onda che batte sulla riva e si ritira con disinvoltura: prende spazio penetrando nell'aria, sempre più frizzante, ma poi si ritrae ancora, rispettoso del sole. Ha iniziato, come sempre, a farsi strada anche intorno a me pretendendo una rinnovata freschezza di pensieri: è tempo di abbandonare le ubriacature della calure estiva, che fa vibrare le immagini all'orizzonte; è tempo di visioni umide,come quelle che concede allo sguardo l'ombra lunga dei rami quando gli alberi iniziano a svestirsi. Ecco che allora abbasso leggermente la palpebra. distendo l'occhio, aguzzo la vista, e per un attimo torno a vedere in modo "disteso" come chi subito prima ha puntato lo sguardo verso un oggetto eccessivamente illuminato. Le condizioni di luce sono migliori, le cose mi vengono incontro più definite ma non per questo più "comprensibili". Quello che vedo davanti a me è comunque piuttosto confuso. O io lo sono in mezzo ad esso. E' autunno, cara Elda, ma forse mai lo è stato con così tanta forza. E' autunno nell'autunno. Lo è per le foglie, lo è per gli astri, lo è per l'atmosfera e per i tassi, ma lo è sopratutto per noi. E nel dire "noi" provo ad elaborare, a stento, un'associazione al genere umano che mai come stavolta mi risulta difficile. Perché lo puoi immaginare il mio tempo vive del ritmo di un'altra stagione, quella di mezzo, innominata, che sta in bilico tra la primavera e l'estate, tra la promessa e l'esplosione matura della vita. Quindi, ti dicevo, è autunno intorno in me ma non per me. Lo stridore rende tutto ancora più inteso, contribuisce alla lucidità della visione. E' un autunno che non è iniziato due settimane fa, come pure il calendario potrebbe far pensare. Ha radici più profonde, più buie, che non saprei né voglio ripercorrere perché conducono all'abisso nell'animo umano. I tratti dell'autunno li riconosci tutti anche se li leggi lì dove mai avresti pensato. Quali, tu dici? Guarda bene! Come ogni autunno, anche quella che stiamo vivendo è una stagione del torpore: ad essersi addormentati sono anzitutto i sensi che non riconosciamo più come parte legittima di noi. Li tacitiamo, li camuffiamo, li anestetizziamo, passiamo dall'infamarli se quello che rivelano di noi ci sta scomodo, all'esaltarli fuori da ogni ragionevolezza se dobbiamo nobilitare qualche aspetto troppo "animale" del nostro essere. Ma questo non basta. Abbiamo ceduto ad un ben più comodo torpore, quello del pensiero e della coscienza. E' un torpore non dichiarato, o meglio il più pericoloso non è quello evidente di chi del letargo ha fatto il suo stile di vita, ma quello latente di chi, per pigrizia o codardia, pur di schivare le conseguenze del "ragionare", si addormenta da sé, ripetendosi a mo' di ninna nanna la sterile sequenza delle cose che non vanno rispetto alle quali neanche abbozza tentativi di cambiamento. Si ripete il mantra, con una parvenza di attivismo, che copre in realtá il sonno profondo della sua ragione. Come ogni autunno, poi, anche questa stagione è segnata dal lento svestirsi della natura. E l'uomo, che della natura - anche se non sembra - ne è parte, partecipa a questo spettacolo di burlesque. Alcuni sono costretti a svestirsi di se stessi: del proprio nome, della propria storia, del proprio passato, dei propri desideri, dei propri affetti, lasciando che tutto cada, come foglie cullate dal vento e prive di ogni libertà che si poggiano sul mare fino ad esserne inghiottite. Altri non vi sono obbligati ma scelgono di svestirsi della loro umanità: dismettono il senso cedendo alla tentazione di una finta nudità, professata in nome di una libertà non vera, per cui si ricoprono di abiti prodotti in serie e mai della taglia giusta. Come ogni autunno, infine, anche in questo tempo vediamo le giornate accorciarsi e la luce durare sempre meno, assorbita da una notte silente in cui i colori non hanno più consistenza, le ombre disegnano passi incerti e distorti nelle dimensioni e gli sguardi si levano assetati verso l'alto desiderosi di piccole luci. Ecco, cara Elda, è questo un po' l'autunno che stiamo attraversando e non pensare che finirà al 21 dicembre!E' una stagione che non ha un inizio né una fine fissati, che segue cadenze diverse da quelle astrali. E' una stagione strisciante ma non eterna. Come faccio a saperlo, ti chiedi?Me lo dice la mia stagione del cuore che mi racconta di gemme rigonfie sui rami,di mandorli rivestiti, di tramonti distesi e allungati sulla sera, di frutti sugosi. Solo così, solo facendo esplodere come mine sparse le nostre piccole stagioni di mezzo, tra la primavera e l'estate, potremo togliere terra a quest'autunno dell'uomo

mercoledì 1 giugno 2016

Ora,qui

L'amore non sopporta interruzioni di tempo o di spazio:non puó che essere sempre,non può che essere ovunque.E se delle "interruzioni" si trova a subire inizia a fremere,a premere,come qualcosa che non puó essere contenuto, perchè l'unica dimensione che conosce é quella della libertá.Fluisce,in continuitá, come acqua;come acqua penetra nelle fessure di ogni giorno,perché nulla della vita che attraversa resti asciutto.Come acqua impregna,leviga e risana.É destinato a stare in perenne movimento:se si ferma ristagna. Copre distanze,da nomi ai luoghi,riveste di memoria angoli di mondo.Avvolge i pensieri,da ritmo ai battiti, suggerisce i sospiri.Tanto ti astrae dalla realtá cullando i tuoi sogni,tanto ti da la forza di immergerti in essa regalandoti occhi nuovi. Spoglia le tue paure,smaschera le tue insicurezze,riveste le tue fragilitá,presta la voce ai tuoi desideri. Ti chiama per nome in mezzo alle folle anonime.Ascolta le tue lacrime in mezzo alla pioggia battente.Riconosce il tuo sorriso tra i raggi del sole. C'è da prima che tu esistessi ma aspetta i tuoi giorni per prendere carne.Conosce che fine faranno i tuoi anni e per questo li illumina come fossero tutti nuovi inizi. Eccolo in queste nuvole pesanti;eccolo nel mare che mi si apre davanti;eccolo in quelle montagne che conoscono il suo nome.Eccolo,senza tempo e senza luogo,eppure qui,eppure ora.

giovedì 14 aprile 2016

Se tu vorrai...

Se tu vorrai, amico del mio cuore, saprò farmi aria per dar voce ai tuoi pensieri. Cercherò di farmi vento per disperdere le tue preoccupazioni. Sarò scirocco per assorbire le tue passioni e sconvolgere i tuoi scogli. Sarò tramontana per spazzare via i tuoi dubbi come fossero nuvole fuggiasche. Mi farò tempo per dare spazio ai tuoi sogni. Mi tramuterò in respiro per ascoltare i desideri al cui ritmo batte il tuo cuore. Mi farò attesa perché tu non abbia a modificare il tuo passo. Sarò corsa per le volte in cui vorrai essere raggiunto. Sarò fiume lento per le volte che vorrai perderti. Non avrò altra bussola che i nostri occhi: mi indicheranno la direzione, mi dichiareranno il volere, lì dove sapranno farsi luce. Non avrò altra cartina che le nostre vene: mi mostreranno la strada segnata dal pulsare del nostro vivere. Se tu vorrai, amico del mio cuore, sarò ventre che custodisce e gravida la tua vita.

domenica 20 marzo 2016

"Primavera non bussa lei entra sicura, come il fumo lei penetra in ogni fessura"

Non spetta a te decidere quanto profumerà il fiore una volta schiuso, quanto i rami dell’albero sapranno protrarsi per farsi illuminare dal sole, quanto la pianta saprà spingersi in alto a toccare il cielo, o quanto le sue foglie saranno vivide bagnate di rugiada al mattino. Non potrai mai prevedere quanto il seme gettato riuscirà a sopravvivere all’alternarsi mutevole e ormai imprevedibile delle stagioni. Nessuno ti potrà mai garantire che il tempo speso a piantarlo, a curarlo, ti verrà restituito in profumi,in gemme o in frutti. Ma allora perché faticare per qualcosa di così incontrollabile?Perché sfidare ogni giorno il rischio delle intemperie che in un attimo potrebbero portarti tutto via? Perché farlo ancora, dopo che hai conosciuto la tempesta e quanta devastazione può causare intorno a te? Forse perché non sapresti che altro senso dare al tuo esistere se non che il perpetuarsi incessante di un gesto d’amore, come quello di un semino covato nella terra, che crea e ricrea vita anche per te, in te. Forse perché ha più senso sperare nel crescere di quel seme e nel suo sbocciare piuttosto che capitolare davanti alla paura della disfatta. O perché un secondo di quella vita vale più di un’eternità di vuoto. O perché un secondo di quella vita ti spalanca all’eternità, succeda quel che deve succedere. Forse perché quel seme, quel tempo di cura, quella speranza, hanno la consistenza delle cose buone: semplici, naturali, che aderiscono al cuore, che non tolgono ma aggiungono sempre qualcosa. E con quel seme senti che stai rifiorendo anche tu in modo semplice, naturale e secondo il tuo cuore. Forse perché hai conosciuto da che pianta viene quel seme e in quella pianta hai intravisto il “di più”. Forse perché non conosci altro modo di vivere che affidarti e quel semino ti è stato messo tra le mani, offerto dal vento, in un tempo sospeso tra il gelo dell' inverno e lo spargersi della primavera.

venerdì 19 febbraio 2016

Gustate e vedete

Nessuno gli aveva detto che si sarebbe trattato di assaporare insieme. Lo capirono da soli, quando iniziarono a sentire quel gusto.Gli si avvicinarono a piccoli bocconi.Il primo li lasciò indifferenti,il secondo li trovó disponibili,il terzo li rapí del tutto. Sollevarono gli occhi puntandoli l'uno sull'altro:incrocio veloce di sguardi,emozione che sale dalla pancia al volto,sorriso appena accennato,compiaciuto,complice. Riso di chi si riconosce da lontano. Riso di chi trova quello che da sempre ha cercato. Riso di chi è trovato da quello che da sempre ha sospirato. E poi il gusto:di quelli che risvegliano i sensi e addormentano i fantasmi, che riempie senza mai saziare. Nessuno gli aveva mai detto che si sarebbe trattato di assaporare insieme la vita:di metterci e trovarci sapore,insieme.

venerdì 5 febbraio 2016

Pezzi di pensieri "migratori"...dalla "vecchia signora coi fianchi un po' larghi" (cit.)

Quando ci rivestiamo impropriamente di parole e quando le parole dicono la distanza.Perché noi parliamo, sì, ma a distanza e non solo perché siamo lontani ma perché il nostro dire ci allontana. Migrante o nomade?Realtà diverse usate per costruire immaginari comuni, quelli di chi decide di avere uno sguardo parziale sulle cose. Sono solo percezioni, lo dico subito. Come tali potrebbero essere sbagliate. O forse come tali non possono che essere giuste perché non conoscono argomenti contrari, almeno sullo stesso piano, quello soggettivo intendo. Sono relative. Come tutto ormai. No, non è vero: non tutto è relativo. Potete obiettarmi quello che volete, ma non tutto è relativo. Di certo non lo è il valore della tua vita e della mia, fratello. Non lo è il valore del tuo passato e del tuo futuro. Della tua gioia e del tuo dolore. Il passato e il futuro, la storia e i desideri, la disperazione e la speranza. La prima percezione è che proprio queste siano le dimensioni che segnano la distanza tra i migranti e i nomadi, che sono categorie storiche ma anche incarnazioni di aspetti diversi del nostro animo. I nomadi rinunciano alla propria storia o meglio acconsentono a portarsene dietro quel tanto che può entrare nelle loro valigie, nella loro lingua, nei loro usi, nei tratti del volto e nelle musiche. Non hanno bisogno di radici ma solo di conservare le tracce del loro cammino per poter, in caso di necessità, ricostruire all’indietro il percorso. Similmente i nomadi non conoscono il futuro, non pianificano niente in realtà, vivono in un eterno oggi, mobile, senza limiti temporali e, quindi, senza spazio. I migranti, invece, si strappano dalla loro storia e questa li perseguita per tutta la vita. Non riescono a chiudere il passato in valigia, non ci sta, è ingombrante. E’ quella stessa storia a costringerli al movimento: si muovono per fuggirla. Ma essa li assorbe in modo tentacolare e anche se non vogliono esplode dai loro occhi, sfugge dalle loro labbra, si impossessa dei loro ricordi. E’ quella storia che li sottrae al presente, un presente che diventa solo tempo di passaggio, per sistemare, per “regolarizzare” quel che stato così da potersi proiettare verso quello che sarà. I migranti vivono sospesi tra due miti: quello che è stato e quello che sarà. Speranza e disperazione convivono nei primi che consci della finitezza umana tentano continuamente di superarla. Dalla disperazione alla speranza è il cammino che compiono i secondi. La seconda percezione riguarda il concetto di appartenenza. I nomadi possiedono ma non appartengono. Hanno un forte senso del possesso rispetto a quel pezzetto di vita che si portano dietro, come lumache che hanno costruito meticolosamente la loro casa. Il loro mondo è tutto lì e ad esso non intendono rinunciare. Allo stesso tempo però non appartengono a niente e a nessuno, se non che a se stessi. Non hanno terra né destinazione, non hanno stagione né clima, non conoscono altro panorama che il cielo, unico elemento di costanza nel loro irrefrenabile movimento. Non appartengono al luogo da cui hanno scorto la prima luce né intendono appartenere alla polvere che coprirà i loro corpi freddi. Occupano gli spazi ma non se ne preoccupano né ne sono “occupati”. I migranti disimparano il possesso piegandosi alla necessità. Chi parte di notte, in fretta o spinto da un’ urgenza non può che cingersi i fianchi è mettersi in cammino, non ha il tempo di riempire la bisaccia. Parte così, nudo, sapendo che tanto non potrà portarsi dietro tutto ciò che possiede, che ha accumulato o costruito nel tempo. Nell’andare i migranti non rompono il legame di appartenenza con la propria terra anzi, se possibile, lo stringono ancor di più facendone un’alleanza incisa nelle viscere. Si sentono responsabili di quella terra così come vivono un debito di riconoscenza verso quella che li accoglie. Divisi, scissi, condannati a sentirsi sempre cittadini e stranieri allo stesso tempo, comunque manchevoli. Tutto può esser nuovo intorno a loro ma il loro occhio non rinuncerà mai alle diapositive dell’origine: ad essa appartengono. Il grado di appartenenza incide ovviamente sull’identità: il nomade costruisce la sua identità in modo autoreferenziale, quasi individualista; il migrante vive del ricordo di una identità collettiva cui ha dovuto soprassedere per sopravvivere. La terza percezione ha a che fare con la libertà. Se l’essere nomade è una scelta libera, magari fondata anche su una predisposizione naturale, il migrante non è tale ab origine ma lo diventa, anzi è migrante proprio perché è costretto a rinunciare ad essere altro: “residente”, che sta. Il nomade “non sta” perché non vuole stare. Il migrante perché non può