giovedì 25 dicembre 2014

Pezzi di...Natale (pacco doppio da scartare)!

Sono pensieri di quasi una settimana fa. Li ho appuntati di fretta sfruttando un semaforo rosso. Mi si erano impigliati nella mente e ora cerco di liberarli, di dargli aria. Si sono nutriti della vita che ne è seguita, si sono insaporiti del Bello che mi è venuto incontro in questi ultimi giorni. 
Sono pensieri tra loro sconnessi, come fugaci illuminazioni che si accendono ad intermittenza. Per questo provo a mantenerli separati, costringendoli dentro un sottotitolo.

Il mio nuovo paio di scarpe
Ancora una volta un evento insignificante come l'acquisto di un paio di scarponcini - tanto desiderati, questo lo ammetto - si è trasformato in una "porta". Il passaggio si è aperto verso la consapevolezza del vivere "su misura". Lo ribadisco: "su misura", non "con misura". 
Quando ci affacciamo alla vita adulta è come se per la prima volta potessimo finalmente scegliere da soli che scarpe indossare. Fino a qualche tempo prima le nostre mamme hanno monitorato e sindacato il colore, la taglia, lo stile della scarpa da comprare, poi arriva un momento in un cui non si sa bene come o perché siamo lasciati soli ad avventurarci per grandi magazzini e vetrine:tutto il mondo delle scarpe è alla nostra portata. Possiamo scegliere tutto (o almeno tutto quanto è nelle nostre possibilità).L'esempio più calzante - involontario gioco di parole - è quello delle scarpe di pelle, perché proprio come una "pelle" si comportano con noi.
Appena troviamo la scarpa "eletta" percepiamo un certo benessere e nel provarla, ancora dentro il negozio, sentiamo che è lei che cercavamo: è semplicemente perfetta. Tuttavia, per uno strano maleficio perpetuantesi di generazione in generazione, spesso - a me sempre - quella stessa scarpa sottoposta ad un primo uso continuativo si rileva diabolica: lo strofinare della nostra pelle contro quella della scarpa inizia a maciullarci il tallone; l'alluce, che al momento dell'acquisto sembrava avesse trovato casa, inizia a sentirsi compresso dalla punta della calzatura. E' sofferenza! Il segreto allora è non mollare. Non lasciare che la "rigidità" della pelle l'abbia vinta, ma aspettare. Aspettare che la scarpa si modelli, prenda la forma del piede, si costruisca intorno ad esso. Se è davvero la nostra scarpa questo avverrà nel giro di poco. 
Così come per le scarpe di pelle, dobbiamo accettare che ci sia un tempo di passaggio in cui la vita si costruisce lentamente intorno a noi, in cui noi stessi le diamo forma a fatica e facendoci alle volte male. 
Per questa stessa somiglianza tra scarpe e vita non possiamo accettare di calzare una vita non nostra: camminare nelle scarpe di altri, già segnate dalla forma del piede altrui, ci fa assumere posture sbagliate, ci crea disagio, pùò addirittura deformare il nostro piede. Non possiamo costringerci dentro i passi degli altri, nè pensare che altri possano stare "comodi" dentro i nostri passi. Ad ognuno la sua scarpa di pelle: ognuno se la cucia addosso attraverso la vita, le intemperie, i terreni che dovrà attraversare.



Addio
Tante volte negli ultimi anni avrei dovuto dire "addio", ma la paura che dietro si nascondesse qualcosa di definitivo mi ha impedito di farlo. Così per non spaventarmi troppo ho inventato formule di compromesso: "allora...ciao!", "a presto", "a domani....perché in fondo c'è sempre un giorno davanti al quale sperare un domani".
Poi una settimana fa è accaduto l'imprevisto. Mi sono ritrovata, per l'ennesima volta, a salutare - a tempo indeterminato - alcuni cuori amici. So per certo che non si è trattato di un addio, ma per la prima volta mi è venuta voglia di pronunciarlo. 
Addio...ad Deum...verso Dio. Non è un saluto, non è un suono per coprire l'abbandono e ridurre la lontananza, è una promessa, come tutte carica di speranza certa. E' come dire: "non vi lascio per andare lontano, ma per trovare il modo di farmi più vicina, mettendomi con voi sulla stessa strada...ad Deum". 
Non si tratta più della possibilità di rivedersi, di riparlarsi, di trascorrere del tempo insieme, o meglio non solo. In un "addio" trova spazio il desiderio di respirare insieme l'eternità. 
Oh se ogni saluto potesse essere un "addio", l'augurio di un incontro più vero, lì dove i cuori possono spogliarsi e stare accanto nudi senza temere di essere feriti, in Dio!!!
Il gusto dell'addio è il sapore dolce della nostalgia di infinito che ci portiamo dentro.
...Addio: passi diversi, terre lontane, ma una sola direzione!

martedì 9 dicembre 2014

Pezzi di lettere 4)

Carissima Elda,
mi accade spesso di ritrovarmi catapultata dentro i luoghi di vita di altri. Ne condivido gli spazi, dormo nelle loro stanze, mangio con loro, come entità di passaggio ma ben mimetizzata:faccio presto a farmi uno con tutti, a fare casa intorno a me! Sono sempre esperienze di benedizione, doni grandi attraverso i quali mi è concesso di sentire l'odore vero,e non addolcito,dell'umano.
Attraverso realtà apparentemente molto diverse tra loro ma, di fatto, animate e agitate dagli stessi sentimenti: ovunque si muovono passioni e desideri, ovunque serpeggiano dubbi e tristezza, ovunque si fa spazio la paura continuamente in lotta con la speranza.
Le ultime stanze che ho visitato erano segnate da un certo grigiore. Gli occhi di chi le abitava erano velati, forse a proteggersi dalla violenza implicita, e non, troppe volte fissata. Le loro voci erano spente perché il fiato faceva fatica a farsi strada nella gola, nel naso, appesantito dalla rabbia e dal rancore che più di tutto facevano rumore. I loro visi sembravano aver dimenticato quali fossero i muscoli da attivare al passaggio di un sorriso per cui, come in una "ola" andata male in cui i partecipanti non sanno bene quando alzarsi e quando sedersi, spesso rimanevano sospesi in espressioni indefinite, a mezz'aria, contratte. Stanze tappezzate di amori spezzati, traditi, di rivendicazioni egoistiche, di richieste di com-passione urlate come fossero ordini, di spasmodiche ricerche di "ben-essere" trasformatesi in estenuanti tentativi di nuotare in una piscina ormai vuota.
Luoghi di povertà vera, assordante, dalla quale rischi di essere sopraffatta tale è la tua impotenza, in mezzo ai quali però la Bellezza non viene mai vinta del tutto, riuscendo ad arrampicarsi ai piccoli rami che trova disponibili come edera testarda.
Ho capito che per attraversali davvero occorre abdicare subito. Rinunciare all'idea di dover e poter salvare qualcosa o qualcuno. E stavolta credo di averlo fatto, facendomi ancora una volta  "foglia docile". Così ho sentito farsi strada e fare capolino al mio orecchio le parole sempre nuove, tanto sono dense, di quella che giustamente conosciamo come la "preghiera semplice": è semplice perché è immediata, diretta, è di totale adesione al reale."Fa di me uno strumento della Tua Pace": solo uno strumento, quale che sia, quello che ti serve, quello che ritieni più utile, al servizio della Tua Pace.
 "Dove è offesa, ch'io porti il Perdono.Dove è discordia, ch'io porti l'Unione...Dove è disperazione, ch'io porti la Speranza.Dove è tristezza, ch'io porti la Gioia". Ecco!Che pace, cara Elda, non appena ho capito che niente altro mi si chiedeva che questo: rendere disponibile agli altri quello che avevo conosciuto in Lui, senza dover mentire assecondando le letture di disperazione e discordia degli altri. Comunicare la Verità della Gioia e la Libertà che ne deriva, niente altro. 
Così, durante quest'ultima visita nelle stanze degli altri, ho capito cosa voglio fare da grande (finalmente dirai tu!): la portinaia!Ma non per chiudere le porte dietro gli altri - come pure qualcuno mi disse - ma per spalancare porte e finestre nella vita di quanti mi sarà fatto dono di incontrare.
Quelle stanze, quei luoghi, quelle vite hanno bisogno di aria, di respirare aria buona, l'unica che rimette in circolo l'ossigeno. Io voglio farmi strumento perché quell'aria circoli, entri la luce, si riaccenda la Speranza.
Unisciti a me, Elda: spalanchiamo queste finestre per chi non è capace e non ha più la forza di farlo da sé.

giovedì 20 novembre 2014

Pezzi di lettere 3)

Carissima Elda,
ho finalmente ceduto e come foglia, spontaneamente caduta da un albero arrampicato lungo un corso d'acqua. mi sono ritrovata "portata". Là dove tutto sembrava dovesse finire, dove le mie paure continuavano ad infrangersi a vuoto, dove le mie presunzioni soffocavano i desideri, proprio là tutto ha avuto inizio e la vita ha ripreso a scorrere. Essenziale è stato l'abbandono, che è più dell'affidamento. Nell'affidare si nasconde la speranza che quel qualcosa consegnato all'altro prima o poi ti torni, è come un prestito in fondo. L'abbandono, come dice la parola stessa, è rinuncia totale e definitiva.Ma come tutti gli assoluti anche l'abbandono, se vissuto come tale, diventa un paradosso: rinunci per "avere" finalmente, davvero.
Come foglia cullata dal fiume ho accettato di diventare tutt'uno con l'acqua, ne ho assecondato il movimento, smettendo di fare domande sui tempi, sulla direzione, sul percorso. Ho rinunciato a portarmi dietro alcunché accogliendo ciò che lungo la discesa si attaccherà o appoggerà a me. Non ho scelto in senso proprio, ho piuttosto obbedito alla necessità, quella che tutti i cuori più semplici e poveri riconoscono: l'appartenenza all'Amore.
Forse questa è solo una nuova partenza non un viaggio. Forse questa è solo una tappa non la meta. Ma quel che conta è che oggi il mio quotidiano è qui, qui sono chiamata a vivere come se non ci fosse per me altro tempo o altro spazio ma al contempo come se nessun tempo e nessuno spazio potesse mai contenermi davvero. E' il dono della "presenza".
Tanti mi chiedono perché, fino a quando, come io abbia potuto. Davanti a quelle domande - che in fondo danno voce ai miei dubbi di ieri - sperimento ora una profonda pace: anche se apparentemente sembra che non possano capire io sono certa che la mia risposta risuona anche nel profondo del loro cuore. Giudicano pazzia quello che vorrebbero abbracciare come desiderio più libero del loro animo. Li guardo, li ascolto e sorrido perché so che non è a me che chiedono perché ma a loro stessi che domandano ragione del "perché no?".
Il perché è la promessa di cui sono impastati i miei desideri, che dà respiro ai miei pensieri e ai miei orizzonti. Ho deciso di ascoltare l'impercettibile sussurro di vento che me la suggeriva.La voce non si è fatta più chiara, non riesco ancora a distinguerne tutte le parole ma rispetto a quel poco che avevo intuito ho già trovato riscontro, ed è vita nuova e centuplicata. Quel pezzetto di promessa che oggi già mi è consegnato si è fatto carne nelle braccia di chi mi ha accolto, nella fatica di chi con il suo quotidiano sta rendendo possibile il mio, si è fatto dono di pazienza (tanto implorata) e di umiltà, quell'umiltà  vera che viene dal vuoto povero che è luogo di attesa. Sono doni e consegne, chiamate e risposte allo stesso tempo, come è sempre per chi restituisce continuamente. Ho restituito e continuo a restituire il mio tempo, i miei desideri, le mie radici, i miei talenti, pronta a levare ogni giorno le tende, e a farmi straniera fedele ovunque io sia. Perché in quel restituire c'è la Vita nuova, la vita centuplicata, già solo che la foglia accetti di abbandonarsi al Fiume.

lunedì 13 ottobre 2014

Pezzi di lettere 2)

Carissima Elda,
torno a scriverti dopo quasi un mese dall'ultima lettera. Il clima non è cambiato a dir la verità: quest'estate continua a tener duro. Inizio a pensare che il tempo si sia fermato proprio per me, che la sospensione climatica stia assecondando la sospensione del mio animo.I cambiamenti ci sono, in realtà, dentro come fuori, ma sono impercettibili agli occhi veloci di chi osserva con stanchezza o superficialità.
Sono successe tante cose, cara Elda, o meglio: tanta vita è accaduta. Non starò a raccontarti la crosta degli avvenimenti: voglio solo provare a dirti la verità.
Dall'ultima volta che ti ho scritto credo di aver attraversato almeno tre fasi. Nella prima, costretta dall'incessante susseguirsi dei giorni,ho dovuto affrontare e sfidare gli alibi che mi ero procurata con tanta cura negli ultimi anni. Li avevo affinati, li avevo pensati nei minimi dettagli, li avevo "testati" usandoli come paraventi dietro cui avevo nascosto alcune paure folli e disperate (come tutte le paure che si rispettino). L'amore tenero di chi mi è vicino è entrato come una folata di vento del nord e ha fatto cadere i paraventi. Dietro c'era un'altra immagine di me, che teneva in una mano dolci infantilismi con cui continuavo a trastullarmi all'oscuro del mondo e nell'altra un gusto per il dramma con cui tante volte avevo vestito i panni della vittima.
Con queste due nuove consapevolezze sono entrata nella seconda fase. Ancora una volta ho sperimentato quanta vita passa tra le parole con cui ci raccontiamo i nostri desideri e la carne che serve perché essi si realizzino. Più volte nei mesi scorsi avevo consegnato al Suo cuore infinito il desiderio di essere "mangiata", di confondermi fino allo smarrimento con l'umanità che mi circonda. In queste ultime settimane ho dovuto prendere atto di come io non sia ancora pronta a questa offerta totale e, anzi, di come essa non possa che essere frutto di un dono, non di me stessa verso gli altri, ma da Lui a me. Con semplicità e pazienza mi ha ripetuto ancora una volta che accogliere l'altro significa farlo nei suoi tempi e con i suoi modi, non secondo la mia convenienza, entro i miei comodi confini. L'altro, se lo fai entrare davvero, occupa spazio, tutto quello che la vita pretende.
In questa seconda fase mi hanno fatto compagnia due riflessioni, che si sono in realtà fermate al livello di semplici "intuizioni" che forse dovrò ancora masticare. Sono stata in tribunale di recente, così senza nessun ruolo preciso, e nell'anonimato concessomi ho avuto più tempo per guadarmi intorno. Ho visto il crocifisso con sotto la tipica frase dei tribunali, "La legge è uguale per tutti", e ho provato fastidio. Inizialmente non riuscivo a capire perché ma poi l'intuizione è arrivata. L'accostamento era di certo tra i più sbagliati per me. Quel crocifisso, infatti, rappresenta l'insufficienza- necessaria-  della giustizia umana, della legge, superata da quell'amore più grande che in quel legno è impresso per sempre. L'Amore è compimento della legge, suo superamento appunto. Solo in questa chiave, solo con questa consapevolezza posso accettare di sottopormi a quella legge, di lavorare per essa. L'altra riflessione mi è stata suggerita da una corsa in autobus. Il tipo alla guida era davvero spericolato e mi è venuto naturale pensare che ogni qualvolta che saliamo su un bus, prendiamo un taxi, tacitamente diciamo all'autista "Mi fido di te". Questa manifestazione di fiducia la ripetiamo quotidianamente in mille gesti, dai più insignificanti ai più importanti : ci fidiamo degli altri guidatori mettendoci in macchina o camminando per strada come pedoni, ci fidiamo del panettiere da cui acquistiamo il pane, ci fidiamo del medico a cui affidiamo la nostra vita. Ci fidiamo perché non abbiamo scelta, perché è su questa fiducia "spontanea" che poggia tutta la convivenza sociale. Eppure facciamo una fatica enorme a fidarci nelle relazioni interpersonali, a dare fiducia a chi ci sta più vicino, forse perché più ristretto è il raggio entro cui si producono gli effetti della violazione della fiducia: ci sembra di sentirli più forti sulla pelle. Allo stesso modo facciamo tanta fatica a fidarci di noi stessi: delle nostre capacità, delle nostre possibilità, dei nostri sentimenti.
Seguendo il flusso di questi "bozzoli" di riflessione - che chissà prima o poi diventeranno farfalle- sono arrivata alla terza fase. Tempo di sospensione, tempo indefinito, tempo in cui ondeggiare. I toni sono pacati, i colori leggermente opachi ma credo sia ancora una volta a causa della paura: abbasso il volume delle emozioni preventivamente perché non debba farlo violentemente. Qualcosa però serpeggia, anche contro la mia volontà. Tutti i desideri sembrano sopiti, anch'essi avvolti in questa generale sospensione del giudizio, tutti tranne uno: quello di ritrovarmi dentro uno sguardo, in un abbraccio, dietro un sorriso che null'altro chiede se non di "essere per". Mi tornano così spesso in mente queste parole del poeta:
"Felice l'istante in cui siederemo nel palazzo,
tu e io
con due forme e due volti, ma una sola anima,
tu e io
e quando entreremo nel giardino,
tu e io
i colori dei fogliami e le voci degli uccelli
ci colmeranno di immortalità,
tu e io,
e resteremo uniti nell'estasi
con le parole con il silenzio,
tu e io
e gli uccelli del cielo invidieranno le nostre risa irrefrenabili
e l'allegria dei nostri cuori,
tu e io".
Felice l'istante in cui tutto questo sarà anche per me, per noi, con le parole e con il silenzio.
Buona notte cara Elda.

domenica 21 settembre 2014

Pezzi di lettere...


Carissima Elda,
Ti scrivo dal mio rifugio sul mare, seduta alla soglia di quel punto imprecisato in cui l'Estate cede la staffetta all'Autunno.Una staffetta falsata quest'anno più che mai: l'Estate non è stata convinta di se stessa fino in fondo e sta tentando di rifarsi sull'Autunno guadagnandosi ancora qualche settimana.
Questi che ci hanno separate sono stati per me mesi strani, un anno intero a dir la verità. Si, un anno fa ormai camminavamo insieme per quelle strade affollate di gente, rumori e odori, unendo le nostre chiacchiere e le nostre risate a quel coro scoordinato che in sé celava però tutta l'armonia dell' umanità varia.
Camminavamo con gli occhi della meraviglia davanti a quella pellicola che ci si svolgeva dinnanzi, camuffando l'emozione con un finto distacco. Come eravamo finite lì nessuna delle due avrebbe saputo dirlo, ma in questa inconsapevolezza credo abbiamo potuto imparare che si è sempre lì dove si deve essere e si è chiamati a vivere - nel significato più pieno che questa parola può avere - lì dove siamo posti, in quell'unica porzione di reale che ci è dato di vedere, toccare, gustare,sperimentare. Ecco uno degli insegnamenti della Città che a un anno di distanza mi ritrovo ad assaporare come frutto maturo. A dirtela tutta, e volendo usare un'immagine casalinga, coi frutti venuti da quell'esperienza magica quanto vera ho fatto tante marmellate da conservare nel tempo e ritirare fuori per risentirne il sapore ogni volta che il mio palato inizia a fare cilecca e a non ricordarsi più i gusti. Proprio in questi giorni ho dovuto rispalmare un po' di quelle marmellate per riportare alla mente due frutti. Uno è quello che ti ho appena detto, scontato quanto rifiutato dalla nostra mente: non viviamo che nel presente e i continui tentativi di fuga verso il nostro passato o verso il futuro sono stancanti e vani come la corsa di chi va controsenso su un tapis roulant. Il nastro ti riporta sempre allo stesso punto. Quanta fatica, quante energie impieghiamo nello sforzo - tutto mentale- di modificare ciò che è stato o di controllare e pianificare ciò che ancora dovrà essere,creandoci così dei buoni alibi per non essere del tutto presenti al presente.Ma se quel passato è già stato, il futuro potrebbe non essere mai.Ora sono qui, ora ti scrivo, ora ti penso, ora ho l'occasione di dirti quello che provo, ora...Cerco, quindi, mia cara Elda di affondare più che posso le mani in questa realtà schiumosa e un po' confusa che mi è dato di vivere oggi. 
L'altra marmellata riassaporata in questi giorni riguarda l'abbandono delle mie rigidità legate a quel bisogno, quasi ossessivo, di gestire, sapere, prevenire. Abbandonare ogni lettura rigida della realtà così da rimanere aperti ai significati aggiuntivi, alle esperienze bonus che può offrire. Tanto più il tuo cuore è aperto tanto più il mondo ti risponde con la vita. E così anche da quell'incontro a cui non davi una lira, anche da quell'esperienza che in sé ti è parsa uno spreco, può iniziare a fluire vita nuova. Abbandonare la rigidità: è stato un po' il motto del cammino di quest'anno senza che io l'abbia scelto. Un motto diventato necessario nel momento in cui ho capito che quello che mi aspettava era un lungo processo di spoliazione. 
La spoliazione è iniziata con te, Elda, che con i tuoi occhi accoglienti e privi di ogni giudizio mi hai riconsegnato a me stessa, oltre le immagini che di me avevo e che il mondo mi aveva sempre rimandato. Mi hai lasciato intravedere ciò che potevo attendermi alla fine della spoliazione. 
Spogliarsi non è scontato, non più dopo la "caduta", non tanto per chi come me spesso ha usato il pudore per nascondere la vigliaccheria. Per questo è stato un cammino duro, di cui in alcuni tratti non riuscivo neanche ad immaginare la fine. Tolto uno strato sotto ne compariva un altro, di tessuto diverso, di diverso spessore, ma comunque in grado di coprire, di trattenere l'aria, la luce, di distorcerne il passaggio. Di quanti strati siamo capaci di ricoprirci?Soffochiamo alle volte pur di non dover rinunciare a nessuno strato, pur di non spogliarci, pur di non gettare qualcosa di noi stessi lungo il cammino. Stringiamo le dita attorno a quei veli che coprono gli occhi, il cuore, che bloccano le mani, intralciano i piedi: respiriamo male, ci sentiamo braccati ma non vi rinunciamo. E' il grande inganno del male: farci pensare che per essere bisogna avere, che per avere non si deve rinunciare, che ogni rinuncia è perdita, fallimento.
Così allora la Città e tu, con la tua spontaneità disarmante,  mi avete iniziata alla spoliazione. Non posso dire di essere tornata alla nudità - e forse in questa vita non mi/ci è dato di arrivarci - ma godo dei segni di una nuova leggerezza.
I pensieri mi sono un po' sfuggiti  e hanno iniziato a dettare alla mano un corso diverso da quello che avevo immaginato per questa lettera, costringendomi a scriverti queste parole anziché altre. Ma con chi se non con te potrei assecondare i pensieri senza troppi problemi? Ho tanto da raccontarti tante cose amica mia, ma mi riservo di farlo in un altro tempo. Intanto, ti prego, raccontami di te: quali pensieri ti hanno abitata?Quali sogni hanno ravvivato il tuo sonno?Cosa hanno sfiorato i tuoi occhi in questo tempo? Il mio cuore si nutre della tua gioia e vive per sostenere il tuo nella fatica, concedigli quindi di fare il suo "lavoro".
Ti abbraccio con dolcezza, un abbraccio che sa di sale e insieme di pioggia, qui, da questa soglia all'incrocio tra l'estate e l'autunno.
A presto.

sabato 16 agosto 2014

Sólo Dios basta.

L'insufficienza è una pratica quotidiana. La sperimenti nelle situazioni più banali così come in quelle vitali. Ti svegli al mattino pensando alle cose che vorresti o dovresti fare durante il giorno e quasi sempre non riesci a portarle tutte a termine come avresti voluto: qualcosa va storto, c'è qualche sbavatura, qualche imperfezione, qualcosa che si mette di traverso lungo il cammino, a meno che tu non decida di indossare dei bei paraocchi che ti aiutino a non vedere quello che ti succede intorno e che pure reclama la tua attenzione scombinandoti i piani.
A lavoro, nella comunità di cui fai parte pensi che potresti e dovresti dare di più, fare qualcosa per attivare il cambiamento, lo immagini, ne hai una visione, ti attivi perché diventi realtà ma proprio allora ti accorgi che il tuo sforzo è in sé insufficiente: le correnti avverse sono davvero forti da padroneggiare.
Ti proponi di esserci per quelle persone, per quei cuore assetati che hai incontrato lungo il cammino ma quando cerchi di farlo per tutti ti accorgi che il tempo per l'amore non è mai abbastanza, che i pezzi di corpo in cui puoi spezzarti non sono mai sufficienti per sfamare tutti. Le energie, il tuo corpo, la tua mente, tutto ti parla di un limite da sopportare, o forse meglio da abbracciare. Ancor più quando in quei cuori incontri il dolore, la disperazione: ti affacci al baratro che ha preso casa in loro e ti accorgi che la cordicella che hai legato intorno alla vita per penetrarvi è troppo corta e forse non reggerà tanto peso. Allora il rischio è di esserne sopraffatti. Sopraffatti dal vivere, dai suoi ritmi, dalla rassegnazione, dalla sofferenza senza prospettiva che alberga in tanti, dalla loro rabbia - quella di chi chiede, esige e ha diritto ad avere spazio in te.
La percezione dell'insufficienza protratta nel tempo genera solo frustrazione se non la si tramuta in consapevolezza pacificata. Siamo poco più che un respiro ripetuto nel tempo.Un respiro inconsapevole di cui alle volte non riusciamo neanche a controllare il ritmo.
Cosa pretendere da noi stessi? Forse solo di esserci, di non rinunciarci, presenti in ognuno di quei respiri. Ma lo puoi fare solo se c'è un di più a darti il ritmo nel respirare e a chiederti di trovarlo. Una ragione, la Ragione. Quella per cui proiettare lo sguardo un po' più in là quando pure tutto ti suggerirebbe di restringerlo all'ora, al contingente, al puntuale. Quella ragione per me è la certezza che siamo parte di un corpo più grande in cui anche il nostro più piccolo battito fa la sua parte. Un corpo nel quale gli sprechi del quotidiano fatti nella verità e nell'amore diventano promesse di eternità, nel quale i nostri miseri sforzi diventano i piccoli passi possibili di un agire più significativo, nel quale batte un cuore più grande del nostro l'unico in grado di contenere tanto dolore, tanta compassione  illuminando con la speranza la disperazione.
Io non basto a me stessa né agli altri, ma proprio per questo amo e sono Amata.

domenica 13 luglio 2014

Lo gnocco del discernimento

"Il termine “crisi” (κρίσις) deriva dal verbo greco κρίνω che significa “separare”. Esso era utilizzato originariamente con riferimento all’attività della trebbiatura, consistente nella separazione della granella del frumento dalla paglia e dalla pula".


 Il tempo della crisi era, quindi, in questa originaria accezione, il tempo della cernita, della scelta, del discernimento. Un tempo in cui individuare cosa tenere e cosa scartare. Un setaccio insomma.Un'operazione di emersione direi io. La crisi induce al discernimento  - se non si appiattisce sull'immobilismo -  e il discernimento conduce all'emersione della scelta. Riflettevo su tutto questo nei giorni scorsi e mi è tornato in mente un pensiero che un po' di tempo fa era stato per me piuttosto ricorrente e che oggi più che mai mi sembra essere vero per la mia vita. Per alcuni aspetti si tratta di una ri-edizione culinaria del discorso sulla punteggiatura.

Le scelte, quelle vere, quelle che si traducono nell' "elezione" di qualcosa, nel riconoscimento di un valore, di un di più per la nostra vita, sono come un grosso gnocco cotto a puntino. Si, avete letto bene, uno gnocco!
Durante il periodo del discernimento noi siamo come acqua messa a bollire. I pensieri gorgogliano, borbottano, fanno rumore dentro e fuori. Sentiamo di avere delle fiamme che ci accendono i sensi, i desideri, le paure. Siamo incandescenti spesso: reagiamo con forza a quanto succede fuori per l'incapacità di usare la stessa decisione rispetto a ciò che ci agita dentro. Contemporaneamente evaporiamo: parti di noi prendono il volo, quelle più leggere, più inconsistenti, e in questo evaporare ci purifichiamo. Rimane solo ciò che serve per proseguire nella cottura. Quando il punto di ebollizione è quello giusto immergiamo in quell'acqua agitata un abbozzo di scelta. Lo gnocco crudo per intenderci. Ha già una forma,è stato impastato, lavorato con tutto quello che c'era a disposizione. Ora lo gnocco deve affrontare l'acqua.
Inizialmente va giù. Tocca il fondo, è sballottolato da una parte all'altra della pentola, ma se impastato bene tiene la cottura, non si spacca. Per questo è importante conoscere le dosi degli ingredienti, usare prodotti buoni, lavorare con forza l'impasto, affidarsi ad un Cuoco capace.
Non puoi anticipare i tempi di cottura degli gnocchi. Non puoi decidere di tirarli fuori quando sono ancora in basso. O meglio puoi farlo ma il risultato sarà una pasta immangiabile. La fretta non aiuta in cucina come nella vita.
A suo tempo, improvvisamente, lo gnocco viene a galla. L'emersione è avvenuta e ti ritrovi tra le mani "compiuto" quello che prima era solo un pugno di farina e un'acqua tormentata dal calore. Certo non è finita qui: tanta parte la fa il condimento, ma la base è pronta!
Buon pranzo a tutti!

mercoledì 25 giugno 2014

La parabola dei punti.

La riflessione sui punti (vedi post di gennaio) che non riesco (riuscivo?) a mettere ha continuato a farmi compagnia in questi sei mesi e, come tutto ciò che vive, si è modificata, ha prodotto esiti nuovi, si è arricchita o forse precisata in alcuni aspetti.E quindi beccatevi quanto segue!

I punti non sono un atto di mera volontà. Non puoi decidere tu dove e quando metterli. E' la frase piuttosto, col suo incedere, nel suo svilupparsi, che detta la punteggiatura. E' il pensiero che sta dietro quella frase. Se cerchi di forzarli e di imporgli dall' "esterno" la punteggiatura, il pensiero o la frase restano monchi, spezzati, insensati. Da qui la necessità di usare in alcuni casi i puntini sospensivi. Un modo per continuare a galleggiare dentro il pensiero e per recuperarne la fluidità impedita dal goffo tentativo di mettere un punto proprio là dove non può stare, o forse non ancora.

I punti arrivano da soli quando il discorso diventa sufficientemente maturo. Bisogna passare attraverso l'identificazione del soggetto, la specificazione del suo agire o del suo essere, occorre definire il contesto, il come o il perché. Ci si muove tra virgolette e congiunzioni, tra virgole e "quasi punti" (punti e virgola). Ci si perde dietro ai "due punti" o dentro le parentesi. 
Allora la frase, un po' come le fasi che viviamo, inizia a srotolarsi come un nastro e pian piano le sue componenti prendono forma, il senso inizia a palesarsi e a suggerire l'intonazione, il ritmo, con cui la si dovrà leggere/interpretare.
E' in questo ritmo, nel suo rispetto e a suo compimento, che arrivano i punti, come la doppia stanghetta alla fine dello spartito.Chiudono il periodo.
Non puoi anticiparli nella logica e nella cronologia della frase, non puoi evitarli alla sua conclusione.
La mia resistenza nel mettere i punti diventa, in questa prospettiva, non solo paura dei nuovi inizi ma anche frutto della fretta che alle volte fa pensare che si debbano mettere anche se non si è ancora capito il senso della frase. L'ignoranza rispetto al possibile significato del periodo, da una parte indurrebbe a troncarlo subito dall'altra però frena. Non si riesce a guardare con fiducia al nuovo inizio perché non si è ancora capito il finale del capitolo precedente.
Stavolta ho letto la frase fino alla fine e alla fine del capitolo. Non era il finale che mi aspettavo ma era il finale che desideravo (perché a volte - stranezze della mente umana - finiamo con l'aspettarci ciò che in realtà neanche noi vogliamo). La paura della pagina bianca ha ceduto il posto alla speranza e all'entusiasmo che vengono dalla consapevolezza che dietro quella pagina non c'è il vuoto ma una vita vissuta e ora ricapitolata in Qualcuno.
E allora: punto e a capo.

lunedì 26 maggio 2014

Tu che abiti le mie attese

Mi è concesso, dopo tanto tempo, di tornare a sperimentare cosa sia l'attesa, quella vera, quella che ti separa da qualcosa che cerchi con fatica, che desideri.
Attesa e desiderio, due concetti che spesso, quasi sempre, si sovrappongono nel nostro pensiero e che a ben guardare si completano a vicenda. L'attesa indica l'azione, il desiderio la direzione. Quando viviamo nell'attesa del compimento di un desiderio ci "protendiamo verso" (ad-tendere) di questo e la direzione del desiderio è una sola: il cielo, dove risiedono le stelle (sidera).
Il cammino tra l'attesa e il desiderio, o al contrario tra il desiderio e l'attesa del suo compimento, è lastricato di speranza. E' la speranza che nutre il desiderio e riempie l'attesa impedendole di trasformarsi in spazio vuoto, di rassegnazione.
La speranza alle volte è un pensiero, altre un fantasma, per me una persona, l'unica in grado di abitare le mie attese senza impossessarsene, senza violarle, senza deprimerle.
Ecco dove mi trovo: in quel cammino illuminato dalla speranza in cui attesa e desiderio sono destinati a ricongiungersi.
Su questo cammino mi capita spesso di incontrare persone che la speranza non l'hanno mai sperimentata e, ancor peggio, che credono di non avere le condizioni per sperimentarla. Ma la cosa più vera della speranza è proprio la sua capacità di esistere al di là delle condizioni oggettive,  perché si nutre di quella tensione verso il cielo che si consuma tra l'attesa e il desiderio.
Mi viene allora naturale pensare che chi non spera in realtà vive due possibili negazioni: questi o nega a se stesso la possibilità di desiderare, di alzare lo sguardo, di osare una prospettiva, o rinuncia al tempo indecifrabile dell'attesa pur di poter afferrare quel minuscolo pezzo di realtà che gli è dato di conoscere e controllare nell'oggi.
Quanto spreco, mi viene da dire!Come si può rinunciare al gusto intenso dell'attesa, che ti percorrere la schiena e ti risale nelle vene, che ti illumina gli occhi e ti scalda le parole?Come poter vivere una vita  senza aver mai respirato l'odore penetrante dei desideri?
Un augurio, quindi, sorge spontaneo e si fa preghiera: possa ognuno di voi avere qualcosa da desiderare, qualcosa da attendere, qualcosa per cui sperare!

mercoledì 16 aprile 2014

Pezzi di...eternità

Non so se ci avete mai fatto caso, ma alcuni di noi vivono come se fossero eterni. Continuano a rimandare da un giorno all'altro il momento in cui riposarsi, concedersi una vacanza, leggere quel libro che da tempo hanno poggiato sul comodino, rivedere un vecchio amico con cui tanto hanno condiviso in passato. Rimandano, indugiano, nell'attesa che arrivi il "tempo buono per", alla ricerca di quell'ottimo che sempre soffoca il buono e gli toglie sapore.
Tra questi peggiori mi appaiono coloro che, nell'illusione non confessata di essere eterni e di avere sempre tempo, rimandano il tempo per "dire" e per "fare" l'amore e quindi per vivere davvero. Non sanno riconoscere il loro sentire e quando iniziano ad intravederlo scappano a gambe levate, non sanno ascoltare il sentire degli altri, non hanno mai sviluppato il linguaggio del cuore, non hanno parole per dire l'amore, non hanno strumenti per costruirlo né tanto meno li cercano. Fuggono, svicolano e se qualcuno li costringe a fermarsi e li mette davanti alle contraddizioni del loro fare auto-conservativo e del loro dire inconcludente inventano castelli nelle cui celle hanno chiuso a chiave il loro amore.
Riconoscerli è facile: sono gli eterni "liberi", quelli che usano la libertà come nemica dell'amore, sono gli eterni impegnati che hanno sempre cose più importanti di cui occuparsi, sono le vittime della vita che faticano tutto il giorno per  mantenersi morti, sono i paladini dell'orgoglio che muoiono dalla paura all'idea di farsi nudi come l'amore pretende. Fuggono e rimandano senza sapere che l'amore è una questione di tempi e di luoghi, che c'è un tempo in cui l'amore si dice, in cui l'amore si fa, in cui l'amore si rispetta.
La tentazione forte per me sarebbe di fermarli, di prendere le loro mani e fargliele affondare in quell'amore così complesso, faticoso ma vivo che loro evitano.Vorrei bloccarli in un abbraccio e sussurrare loro all'orecchio che l'eternità si conquista solo consumandosi per amore: solo perdendo tempo per amore si guadagna un tempo per sempre, solo morendo per amore si conquista la vita.
E' inutile cercare di conservarsi, è inutile continuare a negare il potere devastante dell'amore, il disturbo che provoca ogni volta che è diverso da come lo avremmo voluto: l'amore entra lo stesso, si fa spazio e se ti opponi se lo prende in modo violento. Più cerchi di contrastarlo più diventa veleno che inquina.
Se volete esser eterni iniziate a perdervi per amore, iniziate a morire nel vostro vivere quotidiano. Uscite da voi stessi e concedetevi la vera libertà di essere per gli altri.
Ci sono pezzi di eterno che ci vengono consegnati ogni giorno se solo abbiamo le mani aperte per accoglierli. Sono momenti unici, quasi irriconoscibili. Il loro passaggio è impercettibile ma incisivo,come il vento che entra da uno spiffero e ti percorre la schiena. In quei momenti sei riportato al cuore del tuo vivere: il velo si alza e nell'inutile del quotidiano scopri l'essenziale dell'eterno. Non potrai mai avere in dono questi attimi se continuerai a rimandare il tempo dell'amore. Avrai solo più tempo in cui morire.

lunedì 17 febbraio 2014

Dentro un film dell'orrore...ma il lieto fine quando arriva?

Sono appena rientrata a casa dopo una tranquilla serata al cinema. Il film avrebbe dovuto essere divertente e in effetti non posso dire di non aver riso in qualche scena...ma non si è trattato di un riso liberatorio, no, stasera era proprio amaro. La storia di questi brillanti ricercatori italiani che finiscono con lo svendere i loro cervelli pur di poter avere una vita dignitosa senza minimamente preoccuparsi delle conseguenze del loro agire criminale a me mette tanta tristezza. Lo spreco delle intelligenze, l'umiliazione dello sfruttamento generazionale, il paradosso di una società in cui la stupidità paga e la vivacità intellettuale va camuffata a me mette solo tristezza.
Giusto il tempo di accompagnare a casa la mia amica e con ancora la bocca impastata di questo riso amaro mi ritrovo a vagare sola in macchina per le strade di una città sfigurata. Non c'è rumore, solo qualche nota dal mio cellulare a fare da sottofondo, non c'è vita umana, solo qualche carta inanimata mossa dal vento. Ma c'è forte, sopra ogni cosa un odore, anch'esso amaro e pungente. E' un odore diffuso, non lo puoi evitare perché arriva da ogni angolo, o meglio arriva a distanze determinate dalla legge, le stesse che debbono esserci tra un cassonetto della spazzatura e l'altro. Ma i cassonetti non si vedono più. Valanghe disordinate di spazzatura alte un metro e mezzo e larghe almeno due, distribuite a distanze quelle si ordinate, come la sequenza di un brutto film, come le battute di uno spartito stonato con le pause stabilite tra una traversa e l'altra. Alla violenza dell'odore si accompagna quella della vista. Si, questa è violenza, per il cuore e per gli occhi. Violento è tutto ciò che non sa di Bellezza. La violenza è il contrario della Bellezza. 
Ogni cumulo è una pugnalata, da ogni cumulo arriva la puzza dell'indifferenza delle istituzioni, dello Stato, dei cittadini.L'idea che pian piano si fa strada è che quell'odore non sia contingente, non provenga dalle buste, dalle cassette di frutta marcia, dai materassi che affollano i marciapiedi, che ridisegnano la carreggiata e con prepotenza costringono le macchine e i pedoni a camminare quasi in fila indiana sul lato opposto, quell'odore viene da dentro, dal profondo. Siamo davvero noi a puzzare, noi che non vediamo e se vediamo non parliamo, e se parliamo lo facciamo con parole di rassegnazione. La rassegnazione è muta, è statica, l'unica cosa che sa fare è togliere l'aria, l'ossigeno.E io qui non respiro più da giorni.
Mi viene da pensare che in fondo per  noi è normale:è normale che ci sia qualcosa più forte di noi che ci toglie gli spazi, che ci inquina l'aria, che ci prosciuga le tasche senza che sia possibile ricevere niente in cambio. E' la storia vecchia della criminalità organizzata a pensarci, che ora trova una riproduzione in piccolo nella questione dei rifiuti. Li guardiamo con sospetto, ce ne lamentiamo, ma pensiamo che tutto ciò sia ineluttabile, che non si possa far nulla, che occorra sopportare. Paghiamo le tasse che ci vengono chieste per un servizio che non esiste e non sappiamo trovare risposte "di comunità" a questo dramma che si sta consumando nella punta di un vecchio stivale dimenticata dagli uomini (si perché, lasciatemelo dire, ogni luogo che si suol dire dimenticato da Dio è invece dimenticato dagli uomini).
Ops...ad interrompere i pensieri arriva l'ennesima buca nell'asfalto. Questa era brutta....speriamo di non aver fatto danni. Questa non è una città per le macchine, non lo è neanche per le bici, ma a pensarci bene non lo è neanche per i pedoni. E in una sorta di domino mi viene da pensare che non è una  città per disabili, non lo è per gli anziani, non è a misura di bambini né di famiglie, non lo è per i giovani di belle speranze, non lo è per i turisti...ma allora questa città per chi è?Di chi è?
Sono quasi arrivata a casa e penso già che chiusa la porta il rumore di tutti questi pensieri mi sembrerà meno assordante, ma a neanche 4 metri dal portone mi imbatto nei segni ancora evidenti di quanto è successo nelle notti scorse: 3 macchine bruciate in meno di 7 giorni, senza considerare quelle danneggiate di riflesso. Parcheggio, scendo e sento un leggero venticello che sa ancora una volta di violenza. Penso alla passeggiata al mare fatta ieri,lì il vento sapeva di altro, era leggero, ora in questa notte carica di pensieri anche il vento è pesante. Dio qui con noi ce l'ha messa proprio tutta, ci ha consegnato un piccolo paradiso in cui il sole ha dimora stabile e il cielo e il mare sembrano fare continuamente l'amore. Ma non possiamo pensare che questo possa coprire tutto il resto ancora per molto, non possiamo continuare ad avere una memoria così corta, non possiamo accontentarci di guardare verso lo stretto nelle giornate terse di questa perenne primavera che ci è stata donata con le spalle voltate verso la città a dimenticare la violenza che in essa ogni giorno si consuma.
Quella violenza è dentro di noi e ucciderà noi per primi.

 

martedì 11 febbraio 2014

Preghiera semplice...Pezzi di altri


...la pazienza delle donne dei marinai ai tempi dei grandi viaggi di scoperta, che senza più vederlo il loro amore continuavano ad alimentarlo nel cuore, a farne memoria silenziosamente e compostamente, sapendo che quell'amore sarebbe anche potuto sparire per sempre, inghiottito da un imprevedibile mare.

...trovare in me qualche traccia della fermezza che ancora leggo sui volti di alcune anziane donne del Sud, sedute sull'uscio  o su minuscole sedie intrecciate che scompaiono dietro i loro fianchi larghi, quei fianchi che parlano di un'accoglienza naturale, propria del corpo che si è fatto strumento di vita. La loro fermezza: quella capacità di stare nella fatica del presente,sospesa tra il coraggio e la rassegnazione, sfuggendo i fantasmi della fretta e della paura.

...maturare la saggezza degli contadini, capaci di interrogare il vento e le nuvole,di osservare per prevedere, con le mani "umili", impastate di terra e concretezza e il cuore che ancora batte a ritmi umani.
...come loro imparare i tempi agricoli del sentire. Imparare a piantare avendo già negli occhi la speranza del frutto, imparare a raccogliere quando è tempo e anche se il frutto non è quello sperato, imparare a fermarsi quando non è né tempo di semina né di raccolta.

...sperimentare il mare dentro per ritrovarne in me la profondità e la trasparenza.

"L' Amore non è amato"

"L'Amore non è amato....l'Amore non è amato...l'Amore non è amato"...perché per l'Amore l'amore non è mai abbastanza. E' questo che crea smarrimento, che guardato con occhi velati di egoismo si trasforma in tristezza.
E' vero: l'Amore non è amato ogni volta che decido di rimanere in silenzio davanti alla violenza che contro i corpi, e più diffusamente contro i cuori, degli altri è perpetrata sotto i miei occhi quotidianamente.
L'Amore non è amato ogni volta che la pigrizia mi fa storcere il naso davanti alla richiesta scomoda - nei tempi, nei modi, nelle forme- di chi quell'Amore lo pretende ora, tutto.
L'Amore non è amato quando l'insicurezza mi rende sorda e mi mette in bocca parole vuote che non creano, che non vivificano.
L'Amore non è amato quando la paura di guardare in faccia la mia fragilità e miseria mi fa rivestire di superbia.
L'Amore non è amato ogni volta che disperdo la vita tra i pensieri, accartocciandomi dentro di questi, lasciandomi avvolgere dall'irrealtà.
L'Amore non è amato ogni volta che cedo alle schiavitù della mente o di contesto, stringendomi da sola legacci invisibili intorno alle mani, intorno ai piedi, intorno al cuore, sottraendomi all'attivismo dell'amore.
L'Amore non è amato ogni volta che, cercando in me risposte definitive e non trovandole, smetto di credere al definitivo dell'Amore.
L'Amore non è amato ogni volta che pur di essere per gli altri smetto di essere per Lui.
L'Amore non è amato ogni volta che mi tappo le orecchie con le cuffie dell'egoismo, della stanchezza, del tempo pieno di impegni vuoti, della fretta, per non ascoltare le musiche stonate del mondo.
L'Amore non è amato ogni volta che alzo la voce per non ascoltarlo, che sto in silenzio per non dar voce alle sue pretese.
L'Amore non è amato ogni volta tradisco la mia promessa di pienezza, ogni volta che all' "eccomi" sostituisco un "ho avuto paura e mi sono nascosto".
L'Amore non è amato quando alle tante solitudini che mi sfiorano decido di opporre la mia perdendo l'occasione preziosa per costruire un noi.
Ma quando lascio che lo smarrimento che questa consapevolezza mi causa si riempia di Altro da me, che la sensazione di insufficienza ceda il passo alla volontà di fecondità, che la mia inutile acqua si trasformi in vino, allora quell'Amore mi si rivela e mi ripete che ancorchè non amato, e anzi proprio lì dove non lo è, Lui continua ad amare.

lunedì 13 gennaio 2014

Quel finale che non riesco a trovare...o forse quell'inizio.

Il fatto che questo blog si intitoli "Pezzi di" non è un caso. Non scrivo storie, non per intero almeno. Non sono mai riuscita a farlo. Guardo quei due abbozzi di romanzo che mi ritrovo salvati sul pc e penso che il mio difetto, nella scrittura come nella vita, sia sempre lo stesso. Io non so scrivere i finali. Non so mettere la parola "fine". Lascio i capitoli aperti come se potessero sempre svilupparsi all'infinito.
Forse perché sento di non poter avere parole definitive per nessuna delle mie storie o per la mia Storia.
Forse perché le parole definitive mi spaventano. E' un modo per de-responsabilizzarmi in fondo, come se io non potessi avere il controllo sul finale. Il che è vero fintanto che non diventa un alibi per non decidere.
Quest'alibi non ti esime dal vivere, e se il finale non lo decidi tu è la vita che te lo impone, alle volte in modo brusco, altre sfumandolo come una canzone che finisce con un "ad libitum" che non può essere infinito.

Ci penso e ci ripenso da giorni e qualche passo avanti credo di avere iniziato a farlo.
I punti si mettono con prudenza ma sono necessari perché la verità che nascondono non è quella della fine quanto quella dell'inizio. A guardar bene la paura di chiudere un capitolo, di concludere una storia, deriva da quella più forte di aprirne una nuova. La pagina bianca fa più paura della pagina riempita e conclusa.
Tutto può essere nel foglio candido e se anche l'Autore per eccellenza mi ha fornito delle indicazioni sul contenuto e sulla formattazione sono io a dover, e poter, decidere cosa scrivere.
Quel punto che non riesco a mettere è come un seme che non riesco a piantare. 
Quelle storie che non riesco a chiudere diventano rami che non so potare.
Il seme, come il potare, sono immagini di un nuovo inizio e a queste forse devo guardare per arrivare a scrivere i miei finali, perché è vero che faccio fatica a staccarmi da quello che è stato ma ancor più vero è che desidero ardentemente iniziare a vivere quello che è nella realtà, oggi, ora, per me. Il desiderio dell'inizio è più forte della paura della fine e dell'inizio insieme.

P.s.: la bellezza (di un sentire, di una relazione, di un condividere, di un fare, di un sognare) non basta (o meglio non mi basta più) se non si fa bellezza incarnata, vera, tangibile. Solo la bellezza incarnata può cambiare il mondo.