venerdì 19 febbraio 2016

Gustate e vedete

Nessuno gli aveva detto che si sarebbe trattato di assaporare insieme. Lo capirono da soli, quando iniziarono a sentire quel gusto.Gli si avvicinarono a piccoli bocconi.Il primo li lasciò indifferenti,il secondo li trovó disponibili,il terzo li rapí del tutto. Sollevarono gli occhi puntandoli l'uno sull'altro:incrocio veloce di sguardi,emozione che sale dalla pancia al volto,sorriso appena accennato,compiaciuto,complice. Riso di chi si riconosce da lontano. Riso di chi trova quello che da sempre ha cercato. Riso di chi è trovato da quello che da sempre ha sospirato. E poi il gusto:di quelli che risvegliano i sensi e addormentano i fantasmi, che riempie senza mai saziare. Nessuno gli aveva mai detto che si sarebbe trattato di assaporare insieme la vita:di metterci e trovarci sapore,insieme.

venerdì 5 febbraio 2016

Pezzi di pensieri "migratori"...dalla "vecchia signora coi fianchi un po' larghi" (cit.)

Quando ci rivestiamo impropriamente di parole e quando le parole dicono la distanza.Perché noi parliamo, sì, ma a distanza e non solo perché siamo lontani ma perché il nostro dire ci allontana. Migrante o nomade?Realtà diverse usate per costruire immaginari comuni, quelli di chi decide di avere uno sguardo parziale sulle cose. Sono solo percezioni, lo dico subito. Come tali potrebbero essere sbagliate. O forse come tali non possono che essere giuste perché non conoscono argomenti contrari, almeno sullo stesso piano, quello soggettivo intendo. Sono relative. Come tutto ormai. No, non è vero: non tutto è relativo. Potete obiettarmi quello che volete, ma non tutto è relativo. Di certo non lo è il valore della tua vita e della mia, fratello. Non lo è il valore del tuo passato e del tuo futuro. Della tua gioia e del tuo dolore. Il passato e il futuro, la storia e i desideri, la disperazione e la speranza. La prima percezione è che proprio queste siano le dimensioni che segnano la distanza tra i migranti e i nomadi, che sono categorie storiche ma anche incarnazioni di aspetti diversi del nostro animo. I nomadi rinunciano alla propria storia o meglio acconsentono a portarsene dietro quel tanto che può entrare nelle loro valigie, nella loro lingua, nei loro usi, nei tratti del volto e nelle musiche. Non hanno bisogno di radici ma solo di conservare le tracce del loro cammino per poter, in caso di necessità, ricostruire all’indietro il percorso. Similmente i nomadi non conoscono il futuro, non pianificano niente in realtà, vivono in un eterno oggi, mobile, senza limiti temporali e, quindi, senza spazio. I migranti, invece, si strappano dalla loro storia e questa li perseguita per tutta la vita. Non riescono a chiudere il passato in valigia, non ci sta, è ingombrante. E’ quella stessa storia a costringerli al movimento: si muovono per fuggirla. Ma essa li assorbe in modo tentacolare e anche se non vogliono esplode dai loro occhi, sfugge dalle loro labbra, si impossessa dei loro ricordi. E’ quella storia che li sottrae al presente, un presente che diventa solo tempo di passaggio, per sistemare, per “regolarizzare” quel che stato così da potersi proiettare verso quello che sarà. I migranti vivono sospesi tra due miti: quello che è stato e quello che sarà. Speranza e disperazione convivono nei primi che consci della finitezza umana tentano continuamente di superarla. Dalla disperazione alla speranza è il cammino che compiono i secondi. La seconda percezione riguarda il concetto di appartenenza. I nomadi possiedono ma non appartengono. Hanno un forte senso del possesso rispetto a quel pezzetto di vita che si portano dietro, come lumache che hanno costruito meticolosamente la loro casa. Il loro mondo è tutto lì e ad esso non intendono rinunciare. Allo stesso tempo però non appartengono a niente e a nessuno, se non che a se stessi. Non hanno terra né destinazione, non hanno stagione né clima, non conoscono altro panorama che il cielo, unico elemento di costanza nel loro irrefrenabile movimento. Non appartengono al luogo da cui hanno scorto la prima luce né intendono appartenere alla polvere che coprirà i loro corpi freddi. Occupano gli spazi ma non se ne preoccupano né ne sono “occupati”. I migranti disimparano il possesso piegandosi alla necessità. Chi parte di notte, in fretta o spinto da un’ urgenza non può che cingersi i fianchi è mettersi in cammino, non ha il tempo di riempire la bisaccia. Parte così, nudo, sapendo che tanto non potrà portarsi dietro tutto ciò che possiede, che ha accumulato o costruito nel tempo. Nell’andare i migranti non rompono il legame di appartenenza con la propria terra anzi, se possibile, lo stringono ancor di più facendone un’alleanza incisa nelle viscere. Si sentono responsabili di quella terra così come vivono un debito di riconoscenza verso quella che li accoglie. Divisi, scissi, condannati a sentirsi sempre cittadini e stranieri allo stesso tempo, comunque manchevoli. Tutto può esser nuovo intorno a loro ma il loro occhio non rinuncerà mai alle diapositive dell’origine: ad essa appartengono. Il grado di appartenenza incide ovviamente sull’identità: il nomade costruisce la sua identità in modo autoreferenziale, quasi individualista; il migrante vive del ricordo di una identità collettiva cui ha dovuto soprassedere per sopravvivere. La terza percezione ha a che fare con la libertà. Se l’essere nomade è una scelta libera, magari fondata anche su una predisposizione naturale, il migrante non è tale ab origine ma lo diventa, anzi è migrante proprio perché è costretto a rinunciare ad essere altro: “residente”, che sta. Il nomade “non sta” perché non vuole stare. Il migrante perché non può